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Monica Casadei

L'intervista
Quando
11/03/2016
Genere
L'intervista
C’è un mondo, quello del balletto, che notoriamente è donna. E c’è un ambito, quello della coreografia, dove la presenza delle donne è invece marginale.
Tra queste poche creatrici spicca in Italia il nome della ferrarese Monica Casadei, donna di cultura e sensibilità che la danza la vive e l’ha vissuta in tutti i suoi aspetti: come danzatrice prima e come coreografa poi. 
E che ha trovato un suo personalissimo stile, una danza fisica e potente con la quale riesce a dare corpo alle emozioni. 

La tua Compagnia Artemis Danza nasce nel 1994 in Francia, paese che agli occhi di molti di noi ha un’attenzione particolare per la cultura e l’arte non ultima quella tersicorea. Cosa ti ha spinto a tornare in Italia nel 1997?
Non ho realmente deciso di tornare, anzi ero convinta che sarei rimasta in Francia per sempre. Avevo già trovato dei coreografi per il mio lavoro iniziato nel 1994, avevo un gruppo di 5 danzatori, il Gruppo Artemis e avevo anche vinto dei premi. Ma il 1997, quando Veltroni era Ministro della Cultura, è stata l’epoca delle residenze artistiche per i giovani. 
All’epoca avevo lavorato come free lance a Parma e Monique Veaute aveva visto il mio lavoro. Fu così che il Teatro Due di Parma mi offrì una residenza artistica da aprile a ottobre.
Dopo neanche un anno feci la mia prima domanda ministeriale e una parte della Commissione, Lorenzo Tozzi e Alberto Testa mi sostennero dopo aver visto il mio lavoro a Roma in un piccolo spazio che oggi non esiste più.
Apertura dei teatri e apertura alle prime istanze (oltre a me anche Kinkaleri e Pogliani). Nell’arco di due anni avevo trovato una casa e un finanziamento.

Insomma un’epoca di attenzione ai giovani. Cosa è cambiato in questo senso in Italia in questi 20 anni?
Le condizioni pratiche di lavoro sono diverse. All’epoca avevamo gli spazi ma non c’erano occasioni di visibilità, le cosiddette “vetrine”. Io partecipai all’ultima organizzata da Romaeuropa. Poi quasi più nulla per 10 anni.  Forse oggi ci sono maggiori occasioni per i giovani e una maggiore visibilità. Innanzi tutto perché c’è una vera e propria rete come ad esempio Anticorpi. Io stessa ho supportato e in alcuni caso prodotto giovani talenti. E come me anche altri “affermati”.
Forse non tutti riusciranno a sopravvivere in questo ambiente e non per motivi artistici ma perché avere una compagnia è estremamente faticoso e costoso. Anche le necessità sono diverse. All’epoca io sono arrivata, letteralmente, con la valigia in mano  in cerca di uno spazio. Per averlo offrivo stage e seminari gratuitamente. Era la mia merce di scambio per avere ospitalità,  lo faccio ancora oggi nei tour all’estero: masterclass e workshop gratuiti  per ridurre i costi.
 
Insomma il baratto come antidoto alla crisi!
La crisi c’è ma a volte è diventata  il pretesto per non impegnarsi. Se un’amministrazione non vuole sostenerti  le basta dire che non ci sono i soldi. Per questo in passato ho proposto dei progetti completamente gratuiti, anche provocatoriamente mi offro di fare delle attività a titolo gratuito senza sentirmi sminuita per questo. Forse quello che manca non è il denaro ma  la volontà.
Il problema è che bisogna inventarsi sempre qualcosa per non fermarsi perché se ti fermi sei morto anche a livello creativo. 

E invece la situazione per voi “affermati” com’è?
E’ una questione di prospettiva. 
Ho viaggiato moltissimo con la Compagnia e ho visto realtà dove la situazione è veramente drammatica soprattutto per gli indipendent e dove di arte non si può vivere. In quei casi ho pensato a quanto fossi fortunata. Se poi guardiamo per esempio alla Francia ci sentiamo indietro anni luce. Ma la Francia è una. 
Anche in Germania la situazione non è rosea come si pensa. Un danzatore di un teatro lirico è un dipendente che fa tutto, dall’operetta, all’opera, al mimo, alla comparsa…
Siamo soli e molto presuntuosi. In passato ho organizzato dei festival e quando mi chiedevano il perché rispondevo “per incontrare i miei colleghi”. Non capiamo che stiamo tutti nella stessa barca.
Ma sono comunque ottimista, forse più per carattere che per una visione oggettiva, e penso che sono fortunata a fare quello che faccio anche se mi piacerebbe avere più mezzi.
In cosa li investiresti?
Sui danzatori. Non li userei per costumi o scene. Già in passato con l’incremento del finanziamento ho aumentato i danzatori della compagnia che sono così giunti a 18. Il fatto è che io sono l’amministratrice della compagnia e quindi di me stessa e avendo sempre avuto pochi mezzi ho puntato tutto sul corpo. Semplicemente non ho mai avuto i mezzi per sognare in grande! Non posso permettermi di sprecare soldi. La mia arte è puro corpo a meno che non ci sia la collaborazione con artisti di altre discipline.

Le tue ultime opere Traviata, Tosca X e la nuova produzione Carmen K traggono ispirazione da tre donne protagoniste di altrettante opere liriche, accumunate da un amore che dilania. Come sono queste tue donne?  
Tosca è la vittima. Vittima di eventi dei quali non ha alcuna colpa. Perchè il male può essere dappertutto. Come quando incontri un pazzo che ti cambia la vita per sempre. La X rappresenta anche questo. Una donna qualunque, una come tante.
Violetta è il cuore che trasuda sangue, il cuore infranto, la parte più emozionale, emotiva. Il cuore di Verdi. Una per la quale sin dall’inizio è già troppo tardi; al di la della malattia infatti è una donna schiacciata da una società maschile e maschilista. Una donna vittima non di un pazzo ma di un’intera società e di una mentalità borghese che non le concede la redenzione e che, in quanto cortigiana, non le concede di innamorarsi. 

Parliamo della tua nuova creazione che debutterà il prossimo aprile al teatro Comunale di Bologna. La tua Carmen che donna è?
Selvaggia, istintiva, passionale ma soprattutto libera. Il tema lo definirei “forza e coraggio”.
Anche Carmen è una storia di femminicidio di cronaca tanto drammatica quanto quotidiana. Ma è una donna che pur di non piegarsi si spezza e questo ho voluto mettere in evidenza: la possibilità di scegliere consapevolmente di morire pur di affermare la propria libertà. Non una vittima quindi ma una vera donna libera nello scegliere come amare, vivere e morire. E nonostante il triste epilogo si esce dallo spettacolo sentendoci un po’ tutte wonder woman.
Ad una Carmen così “femmina” si contrappone un Don Josè malato, pentito. Perché la libertà può scatenare una grande aggressività. Dominare una persona libera è fallimentare. 
Ma dobbiamo per forza morire per affermare la nostra libertà?

Cosa vedremo sul palco?
Non c’è nulla di didascalico o narrativo. Non lavoro sulla storia dell’opera già di per sé famosissima.
E’ uno spettacolo fisico affatto astratto, carnale, sensuale e come sempre con una grande energia. Nella prima parte prenderanno il posto del direttore d’orchestra quattro dj che live mixeranno le arie più celebri di Bizet. In questo contesto ci saranno delle nicchie preziose di una Carmen intima, dal profumo selvatico, coinvolgente ma quasi primordiale. Non è una libertà concettuale ma fisica. All’inizio siamo all’interno di una casa per finire poi in un’arena dove siamo tutti Carmen e Tori. Tutti. Uomini e donne. Nel secondo tempo le musiche di Carmen Suite saranno eseguite dal vivo dall’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna e qui Carmen si apre alla relazione con Don Josè.

Il titolo completo è Carmen K (Kimera) riferita a cosa?
Kimera ovvero la libertà stessa. La K è un retaggio degli anni ’70, degli anarchici, dei punk. La scorrettezza grammaticale contro gli schemi, il politicamente corretto. È la trasgressione. 
Quello che colpisce a primo impatto della tua compagnia è l’estrema fisicità, la grande energia, la tensione dei corpi. Questa tua danza così potente trae spunto dalla tua conoscenza delle arti marziali?
Si e c’è in tutti i miei spettacoli. E’ la cifra della compagnia ed è alla base della mia ricerca. 
Ci sono poi le contaminazioni stilistiche che arrivano dalle residenze all’estero che ci hanno portato in contatto con tutta una serie di danze etniche e gestualità tradizionali locali. 
L’elemento principale rimane sicuramente la mia trentennale formazione di aikido. Quello che sono artisticamente lo devo infatti ad un Maestro di arti marziali che mi ha poi portato in Francia e mi ha fatto seguire coreografi che insegnavano e praticavano l’aikido. Ma anche Butho e Aikishintaiso. Un lavoro profondo e personale che ha deciso l’80% di tutto ciò che ho fatto e sto facendo. E’ stato l’anello di congiunzione tra corpo e anima. Io vengo dalla ginnastica ritmica e ho fatto molto agonismo poi sono approdata alla danza. Ma ero particolarmente affascinata dalla “mente” tant’è che mi sono laureata in filosofia. 
C’era questo duplice interesse corpo/mente e le arti orientali hanno fatto da legame. 
Il corpo è la memoria della nostra storia. Dobbiamo abitarlo e capire il perché di ogni gesto. Questo faccio con i miei danzatori che per questo sono anche danzattori. Io non lavoro in astratto ma con gli stati d’animo, le emozioni e l’energia e il gesto come pura forma non mi interessa. 
Il corpo ci parla ma devi “esserci dentro” perché la coscienza genera conoscenza. E la consapevolezza crea l’energia checonsidero fondamentale. Perché senza energia non c’è vita. Per me il significato non è né narrativo né didascalico ma energetico e questa forza arriva al pubblico. 
Che poi lo spettacolo piaccia o no è un’altra cosa.

Da Codice India, Turkish Bazar, Sole dell’Anima Sola al progetto Verdi del 2011-2013 a ToscaX. 
Come si è evoluta la tua ricerca coreografica in questi 20 anni di carriera?
Ci sono due filoni sui quali si muove la compagnia. C’è quello dei viaggi iniziato nel 1998 con “senza domicilio” sulle comunità albanesi trapiantate in Italia prima della dominazione turca. Questo incontro con le altre culture si è concretizzato dal 2005 con il progetto AICA Artemis Incontra Culture Altre che ci ha portato a realizzare progettualità con realtà d’oltreoceano.
Emanazione di AICA è Deep Trip incontro tra artisti e Paesi, scrittori, musicisti e danzatori.
C’è poi il progetto sulle persone iniziato con “Antonio Ligabue” del 1999 sulla vita del pittore di Reggio Emilia, o “I bislacchi” su Federico Fellini. 
Dal 2011 si è incentrato sull’opera ma sempre avendo come focus l’uomo anzi nel mio caso il femminile.
Molti di questi omaggi sono partiti da una sensibilità territoriale e di appartenenza.  Ad esempio da piccola andavo al cinema con Giulietta Masina e ho conosciuto e frequentato Fellini. Parma la città che mi ha adottata è la patria di Verdi e da qui “Traviata”. Questo all’inizio. Poi mi sono profondamente appassionata a queste tematiche. 
Se non ti occupi della storia puoi concentrarti sul focus che ti tocca e ti emoziona, sviluppando delle tematiche di grande forza dirompente e di estrema attualità. 
Insomma tematiche, musiche e parlato che unite alla mia gestualità mi sembra abbiano creato un felice connubio, tant’è che per la compagnia non si tratta di uno spot o di una celebrazione singola ma di un percorso che ho chiamato Corpo d’Opera e che al momento è incentrato sulla figura femminile ma che intende affrontare in futuro anche altri aspetti di questo fantastico ma “altro” mondo che è l’Opera.
Luana Luciani