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Odoardo Brodoni - Memoria del repertorio dimenticato

L'intervista
Quando
10/02/2018
Genere
L'intervista
Ma soprattutto un uomo di grande forza che dopo la brusca quanto inattesa fine della carriera di danzatore a causa di un grave incidente automobilistico, non si è arreso rendendosi realmente fautore del proprio destino.

Come si è avvicinato alla danza classica?
Già studiavo pianoforte ed avevo un grande amore per la musica classica. Ho iniziato per curiosità a 12 anni, non tardissimo ma neanche troppo presto. Sono entrato all’Accademia Nazionale di Danza nel 1974. Era il terzo anno in cui permettevano anche agli uomini studiare in questa istituzione, visto che prima era esclusivamente femminile. Giuliana Penzi, l’allora Direttrice, per incrementare il numero dei ragazzi pubblicò un bando nel quale si garantivano ai ragazzi alcune agevolazioni come ad esempio scarpette e calzamaglie gratuite così come i libri di scuola perché lì c’erano anche le scuole medie e il liceo. Tra l’altro mia sorella era stata ammessa l’anno precedente per cui anche per i miei genitori era molto comodo. Alla fine del primo anno mi ero talmente appassionato alla danza che fui io a chiedere ai miei genitori di poter continuare a frequentare l’Accademia.

Il salto di qualità nella sua carriera c’è stato nel 1984 quando, giudicato miglior danzatore dell’anno, vinse una Borsa di Studio offerta dal Ministero degli Affari Esteri in Russia. Com’è stata questa esperienza?
Mi fosse successo oggi non so se avrei accettato. C’è voluto molto coraggio e forse un po’ di incoscienza... È stato difficile e molto impegnativo anche perché Gorbaciov arrivò nel 1986 e la Perestroika non esisteva. Era la Russia comunista dove si faceva la fila davanti ai negozi, dove era difficile telefonare o anche solo ricevere notizie dall’Italia. Considerate che c’erano solo quattro residenti stabili a San Pietroburgo: il console, il viceconsole, la lettrice di italiano ed io! Anche tornare ogni tanto a casa era complesso e occorreva seguire una procedura tutt’altro che semplice. Tutto veniva però compensato dal fatto di lavorare e studiare in un paese dove la danza era ai massimi livelli e godeva della considerazione di tutti. Un’arte con la A maiuscola! C’erano ancora i grandi insegnanti della tradizione russa che avevano un rapporto quasi filiale con gli allievi. A volte facevamo prove in più per prepararci ad un ruolo e non ci veniva chiesto nulla. Non era pensabile fare una lezione privata a pagamento, per loro era motivo di orgoglio vedere che i loro allievi diventavano solisti e primi ballerini.  Un rapporto meraviglioso che purtroppo la commercializzazione ha fatto scomparire anche li. 
E poi ho avuto la possibilità di studiare con Natalja Dudinskaja e Irina Trofimova allieve di Agrippina Vaganova che mi hanno tramandato tra l’altro vecchie coreografie e variazioni che la stessa Vaganova ha ballato con Petipa. 

Quel’era il suo sogno all’epoca?
Il mio desiderio era diventare un ballerino classico. In Italia avevo danzato in piccole compagnie ma ben presto ero andato al Jeune Ballet de France una compagnia under 21 che raccoglieva giovani diplomati, in particolare dell’Opéra de Paris e dove venivano ospiti gli insegnanti dell’Opéra stessa.
Arrivato in Russia ballai negli spettacoli dell’Accademia Vaganova, poi come guest al Malij e poi entrai nella compagnia del Teatro Kirov. La realizzazione di un sogno!

L’attività di danzatore non ha però rappresentato la fine della sua curiosità. Contemporaneamente ha portato avanti anche altri studi.
Parallelamente mi sono interessato anche alla didattica.
All’Accademia Vaganova c’era infatti un corso di laurea in metodologia dell’insegnamento della danza classica e del passo a due che mi interessava molto. Chiesi il rinnovo della borsa di studio, che mi fu concesso, mi misi a studiare seriamente il russo dato per avrei dovuto scriverlo e parlarlo perfettamente e la mia iscrizione fu accettata. Mi laureai in soli due anni e nel 1988 decisi di entrare al Conservatorio Nikolaij Rimskij-Korsakov sempre a San Pietroburgo per frequentare un corso di laurea in coreografia dove mi specializzai nella ricostruzione dei balletti del repertorio classico.  

E proprio il repertorio è diventato la grande passione della sua vita...
Ho avuto la possibilità di conoscere e lavorare con Pyotr Andreyevich Gusiev uno dei più grandi coreografi che ha traghettato il repertorio russo dalla rivoluzione ad oggi. Fu lui a reintrodurre il Corsaro dopo decenni che non veniva rappresentato ritrovando negli archivi del Teatro Marinsky, alcuni documenti ancora da catalogare e il vecchio spartito con le notazioni autografe di Petipa. 
Fui suo assistente e fu proprio lui ad infondermi questo amore per la ricostruzione dei balletti classici. Tra l’altro di quel periodo mi rimane moltissimo materiale, copie di spartiti e documenti antichi. 
Ho per esempio lo spartito di Bayadere in 4 atti con la firma autografa di Minkus, tanti spartiti di Drigo e di balletti poco o per niente conosciuti.
Nel 1998 fui invitato dal Teatro dell’Opera di Ekaterinburg per il quale ricostruii interamente il balletto in tre atti Le diable à quatre.  Ho anche ricostruito Bayadére in 4 atti, la Fille mal Gardée di Herold- Petipa, Carnevale Veneziano di Drigo-Petipa e Arlequinade di Drigo Petipa.

In Italia c’è poco repertorio e soprattutto poche compagnie in grado di proporlo. Come vedi la situazione in Italia delle Fondazioni lirico sinfoniche che dovrebbero essere le istituzioni delegate a farlo?
Negli anni 80 c’erano circa 12-14 enti lirici con corpo di ballo, coro e orchestra stabili. Oggi ne abbiamo tre. Questo rappresenta un grave impoverimento della nostra tradizione. Perché l’Italia ha una grandissima tradizione. Le prime dei più grandi balletti, in tutto il mondo, hanno avuto come protagoniste delle prime ballerine italiane: la prima Coppelia all’Opèra de Paris fu Giuseppina Bozzacchi, Esmeralda e Giselle furono interpretate da Carlotta Grisi, la prima Odette fu Pierina Legnani. A Parigi la sala prove principale è intitolata all’étoile Carlotta Zambelli. Non solo le interpreti italiane ma anche la danza italiana era la prima nel mondo. La stessa Vaganova basò il suo metodo su quello di Enrico Cecchetti, scuola ancora viva all’estero ma paradossalmente non in Italia. I politici tempo fa dissero che con l’arte non si mangia, ma in realtà è il petrolio dell’Italia: non sta sottoterra ma tutto intorno a noi. Ne siamo circondati, completamente immersi. E non parlo solo di arte figurativa o architettura, ma anche della nostra danza, del teatro, della musica e dell’opera. Tutto intorno a noi è arte e bellezza e ce l’abbiamo nel sangue. Il mondo intero ci riconosce come i degni eredi dei grandi maestri del passato, e il design italiano infatti non ha rivali. E invece di curare questo patrimonio i teatri chiudono, i corpi di ballo scompaiono e non va molto meglio per le altre arti. Anche i monumenti spesso sono in uno stato di semi abbandono. Questo contribuisce al nostro personale impoverimento e non giova neanche alla nostra immagine nel mondo. Abbiamo una grande tradizione che purtroppo non sappiamo o non vogliamo conservare e coltivare. 

Quanto è importante essere stato un danzatore per essere un insegnante?
Secondo me molto. Può essere stata un’esperienza limitata ma per me è fondamentale e in molte nazioni dove è obbligatorio avere un titolo di studio per insegnare è richiesto un minimo di anni da danzatore. 
E penso soprattutto a quei buoni  danzatori che hanno fatto un grande lavoro anche di ricerca nel tentativo di ottenere il meglio. Questi secondo me sono i più portati a diventare dei bravi insegnanti perché hanno già sperimentato su di loro. Forse più delle grandi ètoiles che magari hanno speso meno energie per la ricerca ottimale del movimento semplicemente perchè la natura li ha dotati oltremodo. E poi spesso sono molto narcisisti qualità che in un artista ci vuole ma in un insegnante è deleteria.

Come è cambiato l’approccio dei giovani verso il mondo di tersicore? 
Trovo che nell’approccio dei giovani si sia perso molto in termini soprattutto di costanza e di impegno. A parole vorrebbero fare ma poi un giorno non possono, un altro devono andare via prima, un altro ancora arrivano più tardi. Ma è una tendenza generale non limitata alla danza. 

E invece cosa può dare la danza classica ad un giovane allievo? Intendo anche a livello di esperienza di vita.
Parto da un assunto: tutti dovrebbero studiare danza. Innanzi tutto fa bene al fisico, se ovviamente l’insegnante è qualificato perché si lavora su un corpo in crescita. Recenti studi hanno evidenziato come la danza (e in generale tutte le arti sceniche) riescano a far crescere l’autostima in coloro che la praticano. L’autostima è un elemento fondamentale del carattere umano, è la benzina che ci dà energia, forza e sicurezza nei rapporti che intratteniamo con gli altri nella vita di tutti i giorni. Non solo.
Ai miei tempi si usava la macchina da scrivere e dovevi fare attenzione perché un errore di battitura non si poteva correggere. Oggi c’è il computer e un testo lo possiamo riscrivere, correggere e modificare tutte le volte che vogliamo. Le arti sceniche sono come la macchina da scrivere. Devi dare il massimo in ogni rappresentazione perché non si può tornare indietro e il pubblico ti giudica per quello che vede sul palco in quel momento. Devi quindi essere pronto quel giorno a quell’ora. Non si può rimandare. Questo ha un’altra conseguenza: imparare a rispettare una tabella di marcia, a gestire il proprio tempo. Negli Stati Uniti è stato appurato che chi ha fatto danza o studiato musica, negli studi universitari e negli altri ambiti professionali è più metodico, più preciso perché abituato a lavorare con costanza. 

Per la sua esperienza passata, ma anche presente, quali differenze principali ha notato in Italia e all’estero. 
Quando ci sono maggiori possibilità economiche si lavora meglio. In teatri con budgets importanti c’è più tempo per le prove, i ballerini sono ben pagati e quindi più motivati, e sono stabili, non sono arrivati due settimane prima magari anche fuori forma! Il denaro certo non fa l’artista ma la creatività non sempre riesce a sopperire a carenze organizzative ed economiche. Fermo restando che il guizzo creativo fa sempre la differenza e noi italiani, almeno questo, lo abbiamo!

Oltre all’attività di insegnante e di coreografo si è cimentato anche nell’attività editoriale... 
Si è un’attività alla quale mi dedico nel tempo libero. Nel 2004 ho curato l’edizione italiana de “La tecnica del passo a due” sul metodo sviluppato dal maestro russo Nikolaij Serebrennikov. 
Attualmente sto lavorando ad un libro su Marius Petipa. Sto traducendo le sue memorie, i suoi diari autografi che ho trovato al Museo Bakhrushin di Mosca insieme a libri antichi e fonti dell’epoca che mi hanno permesso di documentarmi ulteriormente.
E poi c’è nel cassetto un altro progetto editoriale sui balletti dell’800. 

Quali sono i suoi prossimi impegni?
Ho appena terminato di rimontare Schiaccianoci per la compagnia Kingsport Ballet in Tennessee e mi hanno già commissionato due nuove creazioni. Questi sono gli impegni più imminenti.

Dopo una vita professionale così intensa, ha ancora un sogno nel cassetto?
Ho diversi manoscritti per poter riprodurre dei balletti classici bellissimi ma che per varie ragioni si sono persi. Ad esempio ho i manoscritti trovati all’archivio dell’Opéra de Paris con le notazioni dei passi di Sylvia la produzione con la quale venne inaugurato il Palais Garnier di Parigi. Oggi viene proposta la versione di Ashton che non è quella antica di Louis Mérante. Il mio sogno è quello di riportare in scena questo e altri capolavori dimenticati. 
Luana Luciani